PREGIUDIZI SESSISTI.

Umiliazione fisica, cerchi giustizia, ma ne subisci un’altra: la violazione dei tuoi diritti di vittima.

Quando a essere minata non è solo la tua fisicità in quanto donna, ma la tua dignità da chi dovrebbe invece garantirti giustizia.

Una giovane donna all’epoca dei fatti studentessa, prima della subita violenza sessuale aveva recitato in un cortometraggio scritto e diretto da uno dei suoi aguzzini, in cui interpretava il ruolo di una prostituta che subiva violenze.

Incontrato il regista con cui all’epoca della recitazione aveva avuto un rapporto sessuale occasionale, invitata a raggiungerlo in un’antica fortezza militare adibita a spazio pubblico per lo svolgimento di spettacoli con la promessa di consegnarle un regalo, l’ignara vittima, nella speranza di ottenere il saldo alla stessa spettante e le immagini del cortometraggio, decide di raggiungerlo presso la fortezza, luogo dell’incontro.

Giunta sul posto, inizia ad alzare il gomito con l’alcool ingurgitando dei bicchierini di liquori “gentilmente offerti” dal regista e dagli amici di quest’ultimo.

Al giungere del finire della serata, il regista e i suoi amici avrebbero abusato della ragazza, vano risultando il tentativo di quest’ultima di liberarsi per raggiungere la bicicletta e scappare dai suoi aguzzini, invece, viene ripetutamente abusata da tutti i presenti, per la precisione da sette uomini.

Ancora sotto shock, accompagnandosi al proprio compagno e a un’amica, si reca presso un centro antiviolenza raccontando dello stupro collettivo.

I mesi che seguirono furono vissuti dalla vittima nell’angoscia, paura, dolore; seguita da una psicologa, non ottenne i benefici sperati, tant’è che subì un ricovero presso il locale nosocomio per stress post traumatico.

Finito il calvario fisico e psicologico, inizia quello giudiziario.

In primo grado dopo numerose udienze, la difesa che dipingeva la donna come “sessualmente disinibita” provocatoria e incitante ai rapporti sessuali, libera di agire sessualmente come meglio credeva, sei dei sette imputati furono condannati “per aver indotto una persona che si trovava in una condizione di inferiorità fisica e psichica a compiere o subire atti di natura sessuale, reato punito dall’articolo 609bis, comma 1, in combinato disposto con l’articolo 609octies. Al contrario, li assolse dai capi di violenza sessuale mediante violenza, ai sensi dell’articolo 609bis, comma 1. Il settimo imputato, D.S., fu assolto, poiché l’inchiesta aveva dimostrato che, sebbene fosse stato presente durante la serata, non aveva lasciato la fortezza con gli altri e non aveva partecipato alla violenza sessuale”.

I sei imputati proposero appello, il giudice di secondo grado li assolse definendo la donna “ un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la sua (bi)sessualità e di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta, come quelli che aveva avuto con L.L. per strada e con D.S., entrambi incontrati pochi giorni prima dei fatti, o come quello orale con quest’ultimo nel bagno della fortezza, prima dei balli e del gioco sul toro meccanico”.  E ancora La corte d’appello rilevò, “che diversi testimoni avevano dichiarato che la ricorrente aveva avuto un atteggiamento estremamente provocante e volgare, che aveva ballato lascivamente stringendo alcuni degli imputati e che dopo aver avuto un rapporto sessuale con D.S. nel bagno, fatto che era stato subito rivelato al gruppo di amici, aveva mostrato la sua biancheria rossa cavalcando un toro meccanico”.

In particolare la corte “ritenne che il comportamento e le esperienze dell’interessata prima e dopo i fatti dimostrassero che nei confronti del sesso aveva un atteggiamento ambivalente che la induceva a fare scelte non pacificamente condivise e vissute traumaticamente o contraddittoriamente, come quella di recitare nel cortometraggio di L.L. senza manifestare reticenza nei confronti delle scene di sesso e di violenza di cui era intriso o quella di partecipare, qualche giorno dopo le violenze denunciate, a un «workshop» denominato «Sex in transition» a Belgrado”.

La donna di fronte a tale deprecabile sentenza presentò in procura una memoria contestando le motivazioni del giudizio di secondo grado e chiedendo la presentazione di un ricorso in Cassazione che invece il procuratore non propose, passando in giudicato (cioè devenendo definitiva) la sentenza del giudice d’appello.

La donna chiede giustizia presentando ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo ritenendo che i suoi diritti da vittima non siano stati protetti e che abbia dovuto subire un processo lungo e penoso con continue ingerenze sulla sua vita sessuale, familiare e personale e che da “vittima” sia stata sottoposta “a processo” .

Inoltre la donna ha dovuto riferire dettagli della sua vita privata non aventi alcuna attinenza con l’aggressione, quali il suo regime alimentare vegano, gli pseudonimi utilizzati sui social, con il solo scopo secondo la donna, atto a dimostrare “il suo stile di vita e i suoi orientamenti sessuali anormali”, e ritenendo pertanto “che i giudizi di valore dati sulla sua vita privata abbiano avuto un’influenza certa sull’esito del processo, e che i giudici avessero scelto di condannare la sua vita privata piuttosto che giudicare i suoi aggressori.”

La Cedu ha rilevato che in effetti, certi e diversi passaggi della Corte d’Appello, evocando la vita personale e intima della vittima, abbiano effettivamente leso i diritti di quest’ultima, ritenendo ingiustificati i riferimenti alla biancheria intima rossa «mostrata» dalla ricorrente nel corso della serata, i commenti sulla sua bisessualità, le relazioni sentimentali e i rapporti sessuali occasionali di quest’ultima prima dei fatti e ancora il tenere nella dovuta considerazione quella sua partecipazione al cortometraggio per il suo carattere violento e sessuale, senza alcun commento o considerazione sul regista che aveva realizzato e diretto il cortometraggio.

Inoltre, “non vede in che modo la condizione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, i suoi orientamenti sessuali o ancora le sue scelte di abbigliamento nonché l’oggetto delle sue attività artistiche e culturali potevano essere pertinenti per la valutazione della credibilità dell’interessata e della responsabilità penale degli imputati. Pertanto, non si può ritenere che le suddette violazioni della vita privata e dell’immagine della ricorrente fossero giustificate dalla necessità di garantire i diritti della difesa degli imputati.”.

E ancora “La Corte ritiene che gli obblighi positivi di proteggere le presunte vittime di violenza di genere impongano anche il dovere di proteggere l’immagine, la dignità e la vita privata di queste ultime anche attraverso la non divulgazione di informazioni e dati personali senza alcun rapporto con i fatti”.

La Corte fa ancora rilevare come il settimo rapporto sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne e il rapporto del GREVIO ” hanno constatato il persistere di stereotipi riguardanti il ruolo delle donne e la resistenza della società italiana alla causa della parità dei sessi e che il basso tasso di procedimenti penali e di condanne in Italia, rappresenta al tempo stesso la causa di una mancanza di fiducia delle vittime nel sistema giudiziario penale e la ragione del basso tasso di segnalazione di questo tipo di delitti nel paese “.

Ancora aggiunge ” la Corte è convinta che le azioni giudiziarie e le sanzioni penali svolgano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta contro la disuguaglianza di genere. È pertanto essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici atte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia.

La Corte ha ritenuto, come fatto rilevare dalla donna per quanto detto sopra, che la stessa abbia anche subito una discriminazione sessuale determinata da stereotipi sessisti.

Italia condannata a risarcire il danno morale subito dalla vittima per l’angoscia provata e il trauma psicologico subito “almeno in parte, delle lacune della mancata attuazione nei suoi confronti, da parte delle autorità, delle misure di protezione dei diritti delle vittime presunte di violenze sessuali”.

Riflessione

Italia condannata, ma quale condanna per gli aggressori che hanno umiliato il corpo di una donna sfruttando il suo stato incosciente determinato dall’alcool?

Si può valutare il solo atteggiamento provocatorio della donna e non quello “sessualmente perverso dell’uomo” che crede di poter approfittare in maniera goliardica di un modo di fare esplicito e libertino?

Perchè si è tenuta in considerazione la sola partecipazione della donna al cortometraggio per il suo carattere violento e sessuale senza alcun commento o considerazione sul regista?

Tanto domande, una sola verità: l’uomo assolto dal suo brutale atto, la donna condannata non solo fisicamente, ma anche giudizialmente: alcuna giustizia e tanti stereotipi.

La legge è uguale per tutti, ma a volte non per tutte.

Il mondo ha tantissime opinioni, nessuna verità e due sole certezze: la vita e la morte, non solo quella fisica, ma anche quella della sperata e non ottenuta giustizia.

Tante donne per “scelta” preferiscono non parlare: talvolta, forse il silenzio fa più rumore delle parole.

Una donna non subisce solo umiliazioni fisiche o psichiche, ma un vero e proprio calvario giudiziario, che ripercorre un “momento” della propria vita che non si vorrebbe mai più rivivere, nemmeno con il racconto, ma necessario per far giungere i giudici alla verità, l’importante che venga rispettato e “capito” il mortificante vissuto.

Donna, fragile creatura, o resa tale dall’altrui brutalità.